Diceria dell’untore, filosofia e arte a teatro

E’ la Sicilia del Novecento quella che Vincenzo Pirrotta vuole rappresentare, nei teatri di tutta Italia, con il riadattamento drammatico del romanzo di Gesualdo Bufaldino “Diceria dell’untore”. Dal libro alla pellicola e dalla pellicola alla tragedia, anche sul palco l’opera riscuote successo.

Il protagonista – “Colui che dice io” nello spettacolo di Pirrotta – è interpretato in modo magistrale dal palermitano Luigi Lo Cascio che si appropria della scena mimando, recitando e cantando la sua storia da reduce di guerra. La vicenda, difatti, è ambientata nel 1946 nel sanatorio della Rocca di Palermo; è qui che il giovane incontra alcuni dei suoi compagni del fronte e con loro condivide il <<nuovo apprendistato di morte>>. La fine dei loro giorni incombe sulle loro teste come un’entità da aspettare passivamente. Ad intrattenere i pazienti ci pensa il nobile Mariano Grifeo Cardona detto il “Gran Magro”, interpretato dallo stesso regista. Il nobiluomo  si occupa di mettere in scena spettacoli per deliziare l’attesa dei degenti.

I costumi di G. Maurizi, le musiche di L. Mauceri e le coreografie di A. Luberti trasmigrano il pubblico nella terra dei pupi e dei canti folkloristici mediterranei. Il sipario non esiste, è già aperto e accoglie lo spettatore in una scenografia, quella del sanatorio, che rappresenta le paure e le ansie dell’uomo. Arte visiva, sonora e recitata, è questa la magnificenza dello spettacolo. L’equilibrio – o forse lo squilibrio – viene minato dalle danze di Marta Blundo, una giovane inferma ammalata di tisi. L’io narrante se ne innamora appena la vede e con lei condivide i suoi ultimi giorni. La donna in realtà è un simbolo, ritrae la Sicilia che era e che sarà. Marta, ex-amante di un ufficiale tedesco e ballerina alla Scala, viene derisa e allontanata da tutti i suoi compaesani. Vive con la convinzione che il suo corpo sia sporco, maltrattamento, quasi uno scarto umano.

E’ perciò una vittima e come tale ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lei, che possa restituirle la vana speranza di potersi rialzare. II veterano e la debilitata paziente provano a scappar via, e sulle alture sicule osservano il bene e il male destreggiarsi  tra i paesi del palermitano. Il finale tragico conclude la rappresentazione lasciando il protagonista senza i suoi compagni, ormai defunti, e senza la sua musa terrena.

Cosa resta a “Colui che dice io”? L’unica ragione per la quale siamo tutti sulla Terra: l’ateo trascinarsi nel <<tempo ordinario dei giorni>> verso l’inevitabilità della vita umana.

Jessica C.

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